Un Prete particolare

Un Parroco davvero originale

 

Prè Regazzoni era assai preoccupato quella mattina del 22 ottobre 1566 mentre aspettava di essere introdotto alla presenza del cardinale che lo aveva mandato a chiamare subito dopo la messa.

In verità aveva cominciato a preoccuparsi già il giorno precedente, quando il visitatore e i suoi collaboratori, ispezionando la sagrestia, avevano trovato, riposte in un armadio, due particole grandi consacrate, vecchie e corrose dai vermi. Sul momento il cardinale non aveva fatto commenti, limitandosi a far registrare la scoperta al suo segretario, ma era apparso chiaro al parroco di Santa Brigida che questa volta non l’avrebbe passata liscia, né per questa mancanza, né tanto meno per quelle che alcuni parrocchiani erano andati a riferire al Borromeo che da tre giorni era in visita pastorale alla sua parrocchia.

Prè Antonio Regazzoni era parroco di Santa Brigida da ben trentun anni e il suo lungo ministero era stato causa di frequenti controversie con i parrocchiani.

I contrasti si erano talmente acuiti che a un certo punto gli amministratori comunali lo avevano fatto convocare a Venezia dall’autorità civile per rispondere di una serie di accuse in merito alla gestione della parrocchia. Ma egli non se l’era sentita di recarsi nella città lagunare, affermando che non ne aveva i mezzi e che era troppo vecchio per affrontare un viaggio così lungo. Per tale motivo gli era stata tolta la facoltà di cele­brare la messa ed era stato costretto a lasciare Santa Bri­gida. Allora si era rifugiato a Valtorta e poi a Lecco ed era rientrato nella sua parrocchia solo dopo la sentenza as­solutoria, pronunciata un paio di anni prima dal vica­rio civile di Bergamo.

Le discordie con i parrocchiani non si erano però so­pite, anzi, erano state acuite da altre infamanti accuse che circolavano a proposito di certi comportamenti del parroco. Quale occasione migliore della visita pastorale per mettere sul tavolo tutte le questioni rimaste in sospeso? Così avevano pensato gli amministratori della parroc­chia che, interrogati dal cardinale, avevano vuotato il sacco. Ma il Regazzoni aveva motivo di ritenere che non avrebbero taciuto nemmeno i suoi compaesani di Valtorta, dove era nato nel 1500 e dove era stato parroco dal 1523 al 1535, rinunciando poi in favore del compae­sano Battista Regazzoni, in cambio però di una rendita annua di quattro scudi d’oro. Proprio a Valtorta doveva rispondere di una palese inadempienza, avendo trascurato l’incarico di cappel­lano della chiesa di Sant’Antonio abate alla Torre, per il quale era lautamente retribuito. Non si era quindi per nulla sorpreso, prè Antonio, quella mattina, ultimo giorno della visita pastorale, quan­do era stato chiamato a rapporto dal cardinale in una stanza del primo piano della canonica, adibita ad allog­gio del visitatore. In effetti il Borromeo aveva già raccolto tali gravi ac­cuse nei confronti del parroco da non poter fare a me­no di istruire un vero e proprio processo canonico. E così, quando il Regazzoni si trovò alla presenza del suo superiore e dei convisitatori che sedevano al suo fian­co, ebbe la certezza che l’intera comunità parrocchiale si era stretta in combutta contro di lui per rovinarlo.

La prima accusa gli venne mossa da Caterina di Tri­nale, una vedova di Redivo. Costei dichiarò sotto giu­ramento che una quindicina di anni addietro il parroco aveva preteso di essere pagato per scendere a Redivo a battezzare il suo bambino appena nato e in pericolo di vi­ta. E lei aveva sborsato la sua quota come del resto pare facessero spesso anche gli altri parrocchiani. Il fatto si era ripetuto, ma con w»a grossa aggravante qualche anno dopo, quando la donna aveva avuto un altro figlio, pure in non buone condizioni di salute e di nuovo aveva mandato a dire al parroco che venisse a battezzarlo. Ma il Regazzoni le aveva risposto che non sarebbe sceso a Redivo, tutt’al più il battesimo poteva essere am­ministrato nella chiesa di San Giacomo d’Averara. Quan­do il neonato fu portato in quella chiesa il prete non c’e­ra, ma aveva lasciato detto che lo portassero a Santa Bri­gida. Purtroppo lungo la strada il piccolo era morto sen­za ricevere il battesimo.

Il parroco negò di aver mai preteso soldi per ammi­nistrare battesimi o altri sacramenti, ammise però che quando gli veniva richiesto di recarsi in località lonta­ne, per battezzare e celebrare la messa, voleva essere pa­gato perché quanto gli veniva richiesto esulava dai suoi doveri pastorali e, visto che si sottoponeva a continui disagi, riteneva giusto essere compensato.Negò inoltre di conoscere Caterina di Trinale e di es­sere mai stato chiamato a Redivo per amministrarvi dei battesimi.

Chiuso questo primo capitolo, il cardinale passò a formulare una seconda accusa stando alla quale il par­roco aveva riscosso dalla comunità la somma di ben cin­quecento lire per rinunciare al beneficio parrocchiale: un caso lampante di simonia. Ma il parroco negò con decisione anche questa circo­stanza, sostenendo che la somma gli era stata versata da un sindaco della contrada, a nome della comunità, per opere di restauro effettuate nella canonica. Ammise poi che da parte della comunità c’era stato effettivamente un tentativo di farlo rinunciare alla carica, cosa che egli aveva subito rifiutato.

Il processo entrò nel vivo con una terza e ben più gra­ve accusa: secondo varie testimonianze, prè Antonio aveva negato i funerali religiosi a un tal Nicola, suo par­rocchiano, che gli era debitore di trenta lire e, come se non bastasse, aveva amministrato il battesimo in forma abbreviata e senza solennità a una neonata, nipote dello stesso Nicola. Il parroco si difese affermando che il Nicola non me­ritava i funerali, perché era morto in peccato mortale: da anni non si accostava ai sacramenti e per di più se la intendeva con la nuora, dalla quale aveva addirittura avuto una figlia. Quanto al battesimo, che cosa pretendevano poi i genitori? Egli l’aveva effettivamente amministrato in forma sbrigativa, ma la colpa era loro perché erano in lite con lui, non gli volevano pagare certe piante acquistate tempo addietro e di fronte alle sue pretese l’avevano anche querelato davanti al vicario di valle. Il quarto capo d’accusa riguardò il tentativo di cor­rompere i parrocchiani quando era stato allontanato da Santa Brigida. Secondo qualcuno egli aveva promesso di devolvere ogni anno dieci lire alla chiesa se fosse sta­to integrato nell’incarico. Il Regazzoni negò anche questa accusa, precisando che tale offerta era stata da lui formulata al momento del primo insediamento a Santa Brigida, ma solo allo scopo di far cambiare idea ad alcuni che erano contrari alla sua nomina.

A questo punto, prima di procedere alla quinta e ben più grave accusa, il Borromeo e i suoi assistenti sotto­posero il parroco a un meticoloso accertamento della sua effettiva preparazione in campo religioso e sacer­dotale. Ne emerse la figura di una persona di grande povertà morale e intellettuale, dotata di superficiali co­noscenze dei doveri pastorali e delle norme canoniche. Insomma, un prete che trascurava il proprio ministero e non amava i suoi parrocchiani. Quanto alle due particole quasi decomposte rinve­nute il giorno prima in sagrestia, il parroco non seppe fornire una spiegazione convincente e questa incertezza contribuì a rafforzare nei suoi interlocutori l’impressio­ne di essere di fronte a una persona di pochi scrupoli e del tutto disinteressata delle cose di chiesa. La fase culminante del processo riguardò le pesanti accuse di concubinaggio. Era di dominio pubblico che egli aveva avuto dei figli da due donne diverse, entrambe sposate e che una di queste era stata strangolata dal ma­rito per gelosia. Lette le imputazioni e ammonito dal cardinale a dire la verità, prè Antonio si decise ad ammettere una parte delle sue colpe: “Ebbene, sì, ho avuto una figlia da una mia parrocchiana di nome Angela che all’epoca era sposata e ora è vedova. Questa donna andava e veniva in tutta libertà dalla mia casa e lo fa anche adesso. Mia figlia adesso ha quindici anni ed è a studiare in un monastero a Lecco. Questo è tutto, non ho avuto altri figli”. Ma di fronte all’incalzare dei suoi interlocutori do­vette ammettere: “Da questa Angela ho avuto un altro fi­glio, che oggi dovrebbe avere diciotto anni, ma non so che fine abbia fatto. Inoltre ho avuto un’altra figlia che però è morta in giovane età, all’ospizio dove l’avevo messa a mie spese”.

Insistendo gli inquisitori nel domandare se aveva avu­to rapporti con altre donne, rispose in modo risentito: “Del mio comportamento in pubblico ho già detto tutto, della mia vita privata parlo solo in confessione!”. Ma il cardinale non si diede per vinto e in modo pa­cato, ma risoluto, indusse il parroco a vuotare il sacco: “Veramente, prima di quei tre ho avuto un’altra figlia da Isabetta Guarinoni di Muggiasca, che era sposata. Ma suo marito non sopportava che frequentasse la ca­nonica e un giorno del 1544, dopo un’ennesima lite, la rincorse per tutta la casa, la raggiunse mentre cercava scampo sul tetto e la strangolò”. E così si chiuse l’interrogatorio. A questo punto chi si aspetta una condanna pesante, rimarrà deluso.

Il Borromeo, seduta stante, si limitò ad infliggere al parroco una multa di 250 scudi d’oro. Somma rilevante, certo, ma decisamente alla portata di una persona che doveva avere nel denaro uno degli scopi della sua vita. Nessun’altra pena, nessuna restrizione nel ministero sacerdotale, nemmeno il trasferimento ad altra parrocchia. La multa venne destinata, dopo vari ripensamenti, a tre diversi scopi: cinquanta scudi vennero assegnati ai sindaci della parrocchia perché li destinassero ad inter­venti in favore della chiesa; cento scudi andarono a fa­vore del seminario di Somasca, istituito allo scopo di formare giovani aspiranti al sacerdozio, ma privi di mezzi. I rimanenti cento scudi servirono a costituire una do­te per alcune nipoti del Regazzoni, residenti a Valtorta, tutte poverissime e in tenera età. Non si creda però che il parroco si decidesse a mutar vita: non appena il Borromeo ebbe lasciato la parrocchia, incominciò a lamentarsi dal pulpito contro i decreti e in generale non mostrò la volontà di intraprendere uno sti­le di vita più consono al suo ministero. Anzi, intensificò le assenze dal paese e presentò addirittura ricorso al nunzio apostolico in Venezia contro la condanna rite­nuta eccessiva. A Santa Brigida rimase ancora per sette anni, poi nel 1573 divenne parroco di Mezzoldo, quindi si trasferì a Cusio. Nel 1578 ottenne di ritirarsi a vita privata e si stabilì nel Lecchese.

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