Paci Paciana..pari non siamo

Il testo qui allegato è tratto integralmente dal  libro : Tarcisio Bottani, Wanda Taufer, “Storie del Brembo. fatti e personaggi del medioevo al novecento”, pubblicato da Ferrari editrice nell’anno 1998.
ringrazio quindi l’Autore per la gentile e preziosa concessione

Pari non siamo

Come si può dedurre da molti degli episodi fin qui riferiti, i briganti in Valle Brembana non sono mai man­cati, in nessun periodo della sua storia. Non tutti hanno avuto la medesima fortuna nell’immaginario popolare: i più sono caduti nell’oblio, ma qualcuno è passato più o meno meritatamente alla storia. C’è addirittura chi ha avuto più fortuna da morto che da vivo. E’ il caso di Vincenzo Pacchiana, detto Paci Pa­dana, il quale, facendosi passare per uno che “rubava ai ricchi per dare ai poveri”, si è costruito la fama, pa­recchio immeritata, dell’eroe romantico, amante della giustizia e pronto a combattere le ingiustizie dei poten­ti e dei governanti.

La realtà, come vedremo, era assai meno poetica.

Scarso successo ha avuto post mortem Angelo Pessina, detto Tarfù, poco meno che contemporaneo del Pac­chiana, capo dei briganti che imperversarono verso la metà dell’Ottocento in Val Taleggio.

Da pochi anni le sue imprese sono state riportate alla luce dallo storico Bernardino Luiselli e vale la pena di riproporle in questa rassegna di cronache brembane.

Due vicende quasi parallele, finite entrambe in mo­do tragico, ma alle quali la gente della valle ha in segui­to attribuito valenze differenti, forse per via del diver­so stile che caratterizzò gli atteggiamenti dei due protagonisti. Insomma, se la sostanza delle azioni delittuose era la stessa, il modo di porsi dei due nei confronti dell’opi­nione pubblica premiò di gran lunga il Pacchiana.

* *

La vicenda di Vincenzo Pacchiana, detto “Paci Pada­na” è da tempo entrata nell’immaginario popolare, for­se più per le leggende che sono fiorite attorno alle sue gesta che per l’assai meno nobile realtà storica della sua esistenza.

Le leggende lo hanno indicato come un brigante buo­no, ingiustamente accusato di furto e costretto a fuggire per sottrarsi alla cattura, vissuto a lungo alla macchia e diventato il difensore dei deboli contro le soperchierie dei potenti. Quasi niente di tutto questo corrisponde alla realtà, in quanto il Pacchiana non era che uno dei tanti briganti che a quei tempi infestavano la Valle Brembana. Forse uno dei più pericolosi, certo colui che ebbe più fortuna di tutti dopo la morte.

L’avvento del regime napoleonico, che nel 1797 ave­va posto fine alla secolare dominazione veneta, aveva sconvolto la tranquilla e isolata comunità montana ber­gamasca che d’un tratto si veniva a trovare a contatto con un modo di governare del tutto nuovo e perentorio.L’eccessivo fiscalismo, la coscrizione obbligatoria e il meticoloso controllo della vita individuale che caratte­rizzarono i primi anni del nuovo regime furono all’ori­gine di forme di ribellione più meno aperte, sfociate spesso nella diserzione e nel successivo espandersi della piaga del brigantaggio, non nuovo nemmeno nella storia della Valle Brembana. Paci Paciana fu uno di questi briganti che dall’inizia­le ribellione al potere costituito, finirono per spadro­neggiare in lungo e in largo taglieggiando, a proprio esclusivo vantaggio, le persone più abbienti dei paesi dove entravano in azione.

Pacchiana era originario dell’allora comune di Poscante, essendo nato nella contrada Bonoré di Grumello de’ Zanchi, il 18 dicembre 1773. Ne fa fede l’atto di bat­tesimo redatto il 20 dello stesso mese dal parroco di Gru­mello, don Giovanni Andrea Zanchi.

Da giovane gestì un’osteria nei pressi del Ponte Vec­chio di Zogno, entro i confini comunali e parrocchiali di Poscante. Tale osteria era situata nell’edificio, tuttora esi­stente, attiguo all’attuale trattoria del Bianco. A parte le tresche con la Lissona, donna di non proprio limpidi costumi, una prima chiara indicazione della sua personalità l’abbiamo dalle vicenda legata al matrimonio con la cugina Angela Sonzogni, figlia del castellano del Monte di Zogno.

Fu un matrimonio celebrato due volte. Una prima ce­rimonia ebbe luogo il 2 giugno 1794, nella chiesetta del­la Foppa, con l’intervento del curato don Marco Negri, ma venne subito annullata perché viziata dal vincolo di consanguineità e dal mancato consenso della sposa, che pare fosse stata costretta con la forza a sposare il cugino. Ma Vincenzo non si diede per vinto e l’il aprile 1795, essendo riuscito a convincere la cugina, potè regolariz­zare la sua posizione con un secondo matrimonio, que­sta volta celebrato nella parrocchiale di Zogno, dal par­roco, don Giuseppe Maria Grigis. Instauratosi il governo francese, Vincenzo era diven­tato “esploratore satellizio”, cioè informatore al servi­zio di Venezia che, come si è visto, non disdegnava ser­virsi anche di delinquenti comuni per i propri fini.

Tale ruolo aveva garantito al Pacchiana anche la pro­tezione dei tanti che avversavano il dominio napoleo­nico. Forte di questa copertura, non aveva esitato a darsi alla malavita, compiendo furti e rapine in diversi paesi della valle, culminati nel 1797 con l’aggressione al par­roco di Bracca, fatto che determinò la prima condanna.

L’episodio di Bracca è uno di quelli che hanno mag­gior fondamento storico tra i tanti attribuiti al bandito, es­sendo stato oggetto di denuncia all’autorità giudiziaria e di conseguente processo.

Si trattò di un’estorsione a mano armata, con minac­cia di morte, perpetrata nottetempo in canonica, ai dan­ni del parroco don Agostino Astori che aveva l’unico torto di custodire una somma di denaro, non certo co­spicua, ma comunque allettante per il bandito.

Il processo che ne seguì si concluse con la condanna in contumacia per il Pacchiana che per sfuggire alla caccia scatenata contro di lui dalla giustizia dell’appena inse­diato governo napoleonico, dovette lasciare la valle e ri­parare a Venezia.

Tornato in Valle Brembana, verso la fine dello stesso anno, riprese le azioni banditesche che diventarono sem­pre più ardite e spregiudicate.

La sua specialità divennero le estorsioni ai danni di ricchi possidenti: tra i casi documentati sono da segnalare quelli a danno dei coniugi Mazzoleni per duemila svan-ziche, di Bortolo Bonetti, addirittura per cinquemila e di un non meglio precisato Gritti, costretto a sborsare settecento svanziche. Non che la forza pubblica stessa a guardare, anzi, gli dava la caccia in ogni momento, ma le protezioni di cui godeva consentivano al Pacchiana di sfuggire sempre alla cattura.

Queste protezioni, accompagnate dall’apporto che gli fornivano altri malavitosi aggregatisi via via a lui, lo re­sero sempre più spavaldo, al punto da non fermarsi nem­meno davanti alla minaccia delle armi. Anzi, a un certo punto tra le guide e i gendarmi mandati alla sua caccia si iniziarono a contare morti e feriti. Ciò contribuì a fare di lui un personaggio imprendi­bile, che accrebbe il suo credito tra la gente comune, de­cisamente ostile al governo francese e alle sue forze del­l’ordine.

Credito che raggiunse il culmine nel corso del famo­so episodio del salto del ponte, quando cioè riuscì a sal­varsi in extremis, gettandosi dal ponte di Ambria men­tre stava per essere catturato dopo un’ennesima azione criminosa.

Il 19 maggio 1806, nel tentativo di mettere le mani sul bandito che ormai era diventato troppo pericoloso per la credibilità stessa delle forze dell’ordine, sulla sua testa venne posta una taglia di cento zecchini da vivo e ses­santa da morto.

Nel frattempo le ricerche vennero intensificate e non mancarono gli scontri a fuoco durante uno dei quali il bandito tornò a colpire alla grande, uccidendo a colpi di fucile, prima Angelo Fezi di Calusco, il 28 maggio 1806, e il giorno dopo Angelo Lanciano, ausiliario di giu­stizia.

Ma Paci Paciana da quel momento dovette difender­si anche da individui della sua stessa razza, che non avrebbero esitato a fargli la pelle pur di mettere le mani sulla ricca taglia.

E proprio da uno di questi venne l’agguato mortale.

Un certo Carcino detto Carcioffo (o Cartoccio), com­pare del Pacchiana in varie imprese banditesche, si ac­cordò con la polizia, che gli garantì la taglia e l’immunità in cambio della testa del bandito. Il Carcino non perse tempo e alla prima occasione non esitò ad uccidere il Pacchiana nel sonno, sparando­gli un colpo di trombone, nei pressi di Gravedona, nel Comasco nella notte tra il 5 e il 6 agosto 1806. La testa del trentatreenne “padrone della Valle Brem-bana, che rubava ai ricchi per dare ai poveri”, venne por­tata a Bergamo e finì esposta sugli spalti della Fara.

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Il tarfù è una grossa larva che elegge a dimora i tron­chi degli alberi, di preferenza giovani noci, e vi si insinua nutrendosi della polpa e scavando di conseguenza lun­ghi cunicoli che arrecano danni gravi e talvolta irrepa­rabili alla pianta. Essendo praticamente impossibile snidare il parassi­ta senza danneggiare il legno, i contadini lo combattono introducendo nel cunicolo un tratto di miccia o uno stop­pino imbevuto di liquido infiammabile a cui danno fuo­co, determinando così la morte della larva. In tale concetto era tenuto tra la gente della Valle Ta­leggio il brigante Angelo Pessina, detto appunto Tarfù, negli anni in cui seminò il panico con le sue imprese banditesche. Imprese per niente trascurabili e che vale la pena di ri­ferire, seguendo la traccia della dettagliata ricostruzione effettuata dal Luiselli…..

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